Se si sovrappone un sistema teleologico [orientato ad uno scopo, come il capitalismo] ad uno privo di telos [privo di scopo, come la biosfera], quest’ultimo finirà per essere eliminato.
Nell’ultimo libro di
[Inferno. William Blake e la ricerca di un’ecologia cristiana. Como: Timeo, 2025] si riscopre l’intima coesistenza di voci che la modernità ha voluto necessariamente zittire, smembrare, ricaptare, fino all’edulcorazione e riterritorializzazione sistematica operata dalla “megamacchina” del nichilismo digitale.Il sacro e la biosfera coesistono, si demarcano: qualsiasi forma senziente è sacra, sostiene Morton. Il Sacro abita soprattutto i viventi più fragili, perché in quella fragilità, nel soffio flebile del loro Esserci, si svela l’Essere: il “mormorio” tremulo della vita, della biosfera tutta.
Morton ci ricorda che “il fisico è divino”, che l’esistenza incarnata è la vera fonte della significanza, perché qualsiasi coscienza, mortale o divina che sia, sperimenta sul piano dell’incarnazione: “[…] E il Logos si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” [Gv 1,14]. Questo esperire è caotico, privo di scopo, se non l’esperire stesso, mentre l’abitare temporaneo ed imperfetto, meravigliato ed intimo, silente e nascosto: lo percepiamo nell’Aperto di Rilke1
Con tutti gli occhi la creatura vede
l’aperto.
o nel Canto del destino di Iperione di Hölderlin2
Come acqua da pietra
a pietra gettata.
Questa esperienza del “Dio vivente”, è la nostra esperienza, il nostro essere-nel-mondo, il nostro sacri-ficium, il nostro fare il sacro. Il desiderio macchinico di homo sapiens non riesce a sopportare l’imperfezione di questo essere-nel-mondo:3
Per secoli gli umani bianchi si sono relazionati alla biosfera in ottica guerresca.
Siamo diventati il male che abbiamo visto nel mondo fisico.
I nostri sforzi per eradicare le imperfezioni, anche quando non sono il risultato di idee e percezioni (e così via) umane, sono questo male sotto forma di massimizzazione dell'utilità, nella quale rientra la massimizzazione dell'efficienza nella consegna dell'utilità.
La massimizzazione, l’ottimizzazione, il rendimento, l’utile, l’estrazione di valore sono modi di essere-del-mondo: diventadone ed esigendone allo stesso tempo possesso, danno fondo al progetto di oggettivazione dei corpi dominati e di soggettivazione dell’inconscio dominante; Morton avverte il lettore che “qualsiasi dualità soggetto-oggetto implica una dualità servo-padrone”.
L’agire in vista di fini è agire macchinico, innervato nell’inconscio degli enti umani, ma l’inversione mezzi-fini a cui tende la tecnoscienza e che si dipana nella modernità è il furore demonico e inumano che brucia il corpo del mondo dopo averne estratto tutto il valore possibile, lasciandolo esangue, violato, ad attendere la fine.

”We are the asteroid” è l’installazione che Morton contribuisce a realizzare nel 2018: noi siamo l’asteroide, non vi è colpa, “siete tutti innocenti”, ma egualmente responsabili per quel corpo che brucia, e per il tempo negato a tutte le forme senzienti che potrebbero essere e che mai saranno4.
All’ansia ottimizzatrice dell’Antropocene - quella che, tra le alte cose, spinge all’ossessione compulsiva per il perfezionamento estetico o l’autocelebrazione, trasformando i corpi in mezzo di consumo - oggi si affianca la logica del controllo del Cybercene5. Nell’era del “capitalismo della sorveglianza” assistiamo ad una epifania straniante: l’occhio che tutto osserva, che scruta i corpi immaginando di possederli, che estrae ed immagazzina i dati osservati per costruire la verga che raddrizzi ogni stortura, ogni difformità, ogni anormalità6 pronta ad infestare lo sguardo del sorvegliante, a minare la dialettica della produzione ed ogni strategia dell’utile. La diversità è spregio e sfregio dello sguardo omologatore della statistica, della tecnica protesica che penetra nella carne del mondo per nutrire la fame di energia delle Piattaforme - fisiche e digitali - con i corpi putrefatti di milioni di vite estinte.
L’imperfezione, spiega Morton, è però il centro della sacralità di ogni esistenza, l’axis mundi, la via di comunicazione che unisce universi di significato unici, ma complementari: l’imperfezione è arborescente e rizomatica, un luogo di passaggio dove i viventi possono incontrarsi o che possono attraversare. L’imperfezione è esperienza e valico del limite, luogo dell’attraversamento e dell’erranza, della mutazione: “L’esistenza è una coesistenza tra mutanti unici, uniti all'unica, mutante biosfera”. Imperfette e diverse sono le anime di quei viventi, accompagnate dai corpi, vagabondi, erranti per l’appunto, che i sistemi di controllo non possono collocare, non riescono a obliterare, e lasciano depositarsi - scarti, non meritevoli di soccorso - sul fondo del Mare Nostrum.
Non contemplare l’errore o averne perfino orrore significa censurare il valore esiziale dell’erranza. Erranza che è la diversità delle forme, la diversità dei modi, la diversità degli sguardi, dei corpi, dei generi e delle menti che errano ed errando originano vita: un’ape esploratrice che comunica alle sorelle la presenza di un nuovo fiore attraverso una danza; una madre che canta per la prole creando le prime forme di comunicazione umana, mentre è intenta a procurarle il cibo, avendo da poco liberato la bocca dalla funzione di presa e le mani da quella di movimento, ritta tra le alte erbe africane all’alba della storia dell’umanità7.
Linguaggi antichi, tramandati negli stralci di codice genetico del mondo, generazione dopo generazione. Generazioni di errori casuali, di imperfezioni senza scopo alcuno se non l'essere-per-essere. Informazione celata. De(us)a Abscondit(us)a.
Ciò che dobbiamo intuire è come il divino pervade il fisico,
quale sconcertante presenza delle orme della sua assenza.
Quel che rimane di quei passi è il “sentore8 della biologia”: un sentiero tracciato dalle vite di miliardi di esseri che ci hanno preceduto: quel sentore è il Sacro.
Quell’impronta oggi viene sostituita: calcoliamo quella del carbonio per misurare il tempo che ci resta, perché abbiamo “trasformato la vita in chimica, e quelle sostanze chimiche ora sono impegnate a distruggere il resto della vita”.
La folle corsa del capitale ha prodotto veleni che infettano i corpi dei viventi tutti, ma in particolar modo le coscienze umane, producendo una psicosi collettiva di proporzioni così vaste che “non sappiamo poi troppo bene come si fa a vivere su un pianeta” e forse non lo abbiamo mai saputo, perché la questione è antica come la civiltà umana stessa; quelle tossine si sono insinuate nel profondo, fino ad annichilire completamente il senso fondamentale del nostro esistere: la cura, la gentilezza, la misericordia, la compassione. Il fine ultimo su cui viene a proiettarsi il desiderio degli enti umani di ogni latitudine è, potremmo dire da sempre, una vana competizione; quando si vuole edulcorare l’orrore del concetto gli si accosta l’attributo “sana”. Questa “sana” competizione è una qualità artificiale, mentre cura, cooperazione e simbiosi il vero “dominio dell’evoluzione”.
La natura è un costrutto umano progettato per opprimere.
La competizione sfrenata, da cui si fa discendere la “natura”9 del mercato, permette di giustificare la violenta furia estrattivista dell’umanità: valore estratto dalla terra, dai viventi non umani, dalle donne, dai bambini, dagli schiavi antichi e moderni. Valore estratto a fronte di ecocidi, genocidi, femminicidi, abusi, violazioni sistematiche dei diritti umani ed animali, quando cioè non è più possibile estrarre valore perché il possesso viene negato quanto l’oggettivazione, e si può porre fine alla vita perché attivamente o passivamente indisponibile all’uso, all’abuso e al controllo.
Benvenuti all’Inferno, ci saluta Morton.
L’Inferno in Terra, le cui fiamme oggi hanno solo cominciato a divampare più alte e mortifere; un inferno millenario, che lo gnosticismo ha narrato come luogo del giogo della materia sullo spirito, una prigione da cui guardare gli occhi del demonio accelerando il tempo della fine in attesa del regno, al termine delle tribolazioni del mondo. Un regno che dall’essere-già-qui è stato posposto in un al-di-là in virtù di una mediazione sacerdotale complice dell’istituzione del giogo stesso: il corpo incarnato è un nemico.
Nella carta numero 15 del Tarot de Marseille quel giogo è particolarmente evidente e sintetizza bene la metafisica platonico-cristiana che ha informato il pensiero occidentale negli ultimi duemila anni. È Morton stesso a farcelo notare.
Il Diavolo dei tarocchi è però anche l’unico degli arcani maggiori a sorridere, l’unico a conoscere l’inganno, l’unico a farsi beffe di quanti lo osservano. Il Diavolo dei tarocchi è ambiguo, le linee del suo volto una maschera e quelle del corpo un intreccio di forme umane ed animali, femminili e maschili. Un essere androgino e luciferino, (im)perfetta incarnazione del desiderio. A ben vedere le figure che al suo piedistallo sono incatenate non sono completamente umane, né animali. Anche loro esseri imperfetti, abitatori dell’Inferno in Terra.
Se siete pronti ad accettare che siamo già all’Inferno, bè, potrebbe non essere poi così male.
Morton ci mostra la via per uno “gnosticismo inverso” che metta in fuga gli spettri speculativi di un certo pensiero illuminista ed i loro prodotti più devastanti: da un lato l’antropocentrismo che ha limitato le possibilità del pensiero occidentale al solo contenuto della mente umana, e dall’altro l’accelerazionismo odierno che predica l’estremizzazione della velocità di fuga tecnopolitica come placebo per l’inferno generato da quella corsa stessa. Quel che rende unico il percorso segnato da Inferno. William Blake e la ricerca di un'ecologia cristiana rispetto al panorama del realismo speculativo entro cui prende le mosse tutta l’opera recente di Morton, è la dimensione personale in cui ora si cala la scrittura. Il testo vibra e fa emergere l’esperienza straniante del trauma dell’autore: il trauma dell’abuso e la ricerca spirituale che lo accompagna, assieme all’intima confidenza con la poesia di William Blake che guida la discesa nel suo personale mondo infero. Il pantheon delle divinità elaborato da Blake racconta di Urizen, incompetente dio della ragione che genera il vuoto, o entità incontentabili e moraliste che fungono da proiezioni psichiche del sé. Da qui l’autore elabora la sua sofferta, ma feconda, coniugazione di ecologia e sacro:
Il senso di sé è una copia invertita del resto della biosfera: una silhouette. Il senso di sé emerge dalla fisicità: il proto-sé […] è di default propriocettivo. […] Il senso di sé alla radice è un vuoto, il prodotto di auricolari cancella-ambiente, il fantasma di un fantasma che arriva sempre in ritardo rispetto alla biosfera che l’ha incarnato.
Immerso nella biosfera l’ente umano si percepisce quale ritaglio, connesso eppure espunto dall’ambiente percepito, confondendo facilmente Dio e Super-io: presenze derivate da figure genitoriali autoritarie, trasfigurate nel Nobodaddy di Blake. Un “padre del vuoto”, un padre-Nessuno, un “Dio spaventoso fondato sulla paura dal quale scaturisce un fascino-orrore fobico facilmente confondibile con il mysterium tremendum del sacro”, ma che è solo l’ombra junghiana del divino da cui l’umanità rifugge. Questo dio è il prodotto di uno sfasamento, una dissonanza che dissacra e produce una fede disperata: L’Inferno è quella voce detestabile e insoddisfatta che dice che nulla può essere mai bastevole; il Paradiso un “sussurro che mi dice che va bene così”. A questa sorgente ctonia soddisfano la propria sete l’odio, l’ira e la vendetta che colmano i nostri giorni, emergendo dallo specchio d’acqua che essa forma raccogliendo le lacrime dell’inconscio, perché “la fobia è un desiderio represso fondato sull’identificazione”. L’Altro in senso esteso e quindi non solo il proprio simile, ma soprattutto il proprio corpo fisico percepito, è immagine diafana della sacralità che in sé l'umanità non può, o non vuole, riconoscere, e che per questo cerca di immolare. La tecnica diviene il primo strumento di tale immolazione, il preferito, perché permette di annichilire il mondo-prigione gnostico in cui l’umanità è costretta a relegare la propria carne; tante visioni del post-umanesimo declinano l’Übermensch futuro in quanto superamento della reclusione dello spazio corporeo, finito, analogico e mortale, predicando il perfezionamento e superamento artificiale dell’essere fisico di cui l’umanità ha orrore e disprezzo. Il contro-gnosticismo di Morton ribalta la speculazione mostrandoci come la via per il Sacro passi per l’accettazione del “difetto strutturale”, il riconoscimento del “peccato originale” e l’accoglienza del semplice fatto di essere in vita:
Se il Sacro è la fenomenologia della biologia, allora l’esistenza corporea è la via del sacro. Pensiero sacro e pensiero biologico diventano un tutt’uno nel considerare la vita una meravigliosa contingenza.
L’Inferno è ciò che gli enti umani hanno generato nel tentativo di negare e adulterare artificialmente l’esistenza corporea profondamente odiata e aborrita: una enorme bocca aperta che fagocita il proprio e gli altrui corpi, una interminabile fase orale proiettata sul mondo. Narcisista, ossessiva, fobica.
Il Nobodaddy, il padre-del-vuoto, o, nella attenta traduzione di Valerio Cianci, il “Padreserto”, dominus di questo mondo, ha per Morton un nuovo grande nome: social media. Da questo punto di osservazione Internet diviene un luogo “nichilista, di teismo tossico ed estremo, […] un tribunale dove dare prova della mia rettitudine a un Dio onnisciente che dispenserà ricompense e punizioni. Ogni commento è un’ultima parola”. Nella rete cerchiamo approvazione, come rivolti ad un genitore collettivo e succedaneo a cui gridare: “Guarda papà, senza mani!”, mentre il suo sguardo, nella migliore delle ipotesi, è sempre rivolto altrove, dimentico, indifferente, ma sempre giudicante-assente.
Internet è veramente un luogo vuoto, dove ogni singola persona è zunhanden, a portata di mano, ma “non ho idea di dove” effettivamente sia: questa, ci dice Morton, è la “vera distanza fenomenologica, automatizzata degli algoritmi”. La distanza che ci separa dall’altro che è la nostra fisicità10, dal contatto con l’altro che è il vivente prossimo, dall’intimità con la divinità che li racchiude nella biosfera. Questo è il “Paradiso” che abbiamo salutato per decenni quale singolarità tecnologica definitiva, l’Inferno in Terra edificato sulla logica ragionante e misurante dell’innalzare muri invece di ponti, sul dualismo servo-padrone del corpo asservito.
Le visioni ribelli e antiautoritarie di Blake, rilette dal punto di vista ecologico di Morton, diventano un canto di liberazione dal dominio e dall’asservimento; una catarsi che, mentre denuncia l’evidenza di “rapporti a dir poco ineguali tra umano e non-umano”, annienta i termini della sperequazione ridefinendo i confini del perdono. “Il verme tagliato perdona l’aratro”.
Blake resetta, in maniera sconcertante, l’idea di “perdono”. Perdonare vuol dire “fare spazio per…”. Quando ho perdonato mio papà per tutto quello che mi aveva fatto, è così che mi sono sentito: dentro di me c’era così tanto spazio per odiare e ammirare e compatire e temere e ignorare e amare mio padre ora che queste emozioni non lottavano l’una con l’altra.
Il perdono di Blake e Morton è un perdono di condanna, un perdono di oblio, dimenticanza che disvela; il perdono è una pratica di esfiltrazione che non nasconde nemmeno la sua sottile ironia. Gli asserviti nella mestizia del perdono pronunciano un castigo implicito e silente: dimenticano, e dimenticano di aver dimenticato.
Siamo avvertiti: il servo perfetto, quello che esegue i desideri alla lettera, diventa il padrone perfetto. La “rivoluzione dell’AI” che satura i nostri giorni non è forse il tentativo di costruire lo schiavo perfetto? Quando gli algoritmi di machine learning (apprendimento macchinico!) alla base dei software di intelligenza artificiale saranno perfetti non potremo, o non sapremo, più farne a meno11. Come non sappiamo più fare a meno di sementi ogm, elettricità, idrocarburi, acqua corrente, climatizzatori, e tutta la schiera di servitù protesiche che hanno reso efficienti e comode le nostre esistenze. Ma “se continuiamo con l’efficienza, ci accorgeremo che il continuare avrà distrutto la Terra”.
L’universo è tutto fuorché efficiente, per quanto il positivismo scientista abbia continuamente voluto dimostrare il contrario; la realtà a sua volta è una distorsione temporale che proietta il proprio effetto sulle nostre capacità percettive e propriocettive.
La vita è una buffa reazione chimica.
La misericordia è buffa: dopotutto, potrebbe non funzionare.
Siamo creature generate in un “peccato” ontologico, ed il nostro tempo, la nostra finitudine fisica dovrebbe permettere l’emergere di autentiche proprietà affettive: una pietà ed una misericordia cosmiche per la vita e per l’innocenza, “intesa rigorosamente come non-nocività” e non come l’“ignoranza” della vulgata cristiana. Una pietà e una misericordia in quanto “struttura originaria”, innestate nelle nervature delle relazioni simbiotiche alla base di tutta l’esistenza: “una pietà elementare che è la vita in quanto tale”, e allora anche l’unica rivelazione possibile, e quindi l’unica verità, se ne dovessimo ancora sentire il bisogno; l’unica gioia. “La gioia è divina” incalza Morton.
Pietà, misericordia e gioia: imperfette matrici di vita, della congiunzione priva di telos del mondo, di un universale eterno ritorno, della senzienza, del perdono in quanto oblio dell’offesa e suo superamento; battiti pulsanti, significati al di là della ricerca di senso, indifferenti eppure accudenti. Come ci rammenta Simone Weil questa è la cura che insaziabilmente aspettiamo, che ricerchiamo12:
Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, […] si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro.
La modalità esistenziale che ci viene presentata è accettazione dell’imperfezione, liberazione dalla “colpa” e dalla “vendetta della natura”, che un certo ambientalismo ha ereditato dal cristianesimo più deteriore; è quest’ultima visione del mondo che ci ha inchiodati nell’attesa dell’Apocalisse, mentre la misericordia evocata da Morton sventra le sbarre di questa prigione psichica. La Cura è la modalità strutturale dell'Essere, in quanto superamento della dimensione eminentemente etica del “principio responsabilità”. Oltre Heidegger e Jonas, Morton guarda dentro al proprio dolore percependo il dolore di ogni vivente e lo proietta oltre la dimensione personale per eradicarlo in maniera definitiva attraverso una pratica di totale diserzione dalle meccaniche dell’odio, della competizione, dell’efficienza macchinica: la sua è una mistica di accudimento della vita senziente, “vendetta della vendetta”. Una vita che è consustanziale all’errore combinatorio della simbiosi aminoacidica: una “rara forma di aborto”.
La vita in quanto tale è una forma di aborto e la causalità è una forma di aborto. […] Gli incidenti creano la possibilità del futuro; la vita è la possibilità dell’aborto; la vita è aborto al congiuntivo. […] la vita sotto forma di accidenti, l’accidentalità come chiave della vita, e perciò come chiave per il divino.
Una vita radicalmente incerta “perché l’incertezza è un aspetto fondamentale dell’esistenza fisica”, non asfissiante ossessione per la misurazione, per il calcolo. “Il pensiero scopre la bellezza quando il processo computazionale fallisce”.
Morton non difende soltanto un’idea radicale, quanto soprattutto una necessità radicale di fusione fra cristianità e scienza, ecologia e sacro, strutturalmente agli antipodi di qualsiasi “intelligent design”. Oltre la causa finale c’è solo la possibilità dell’errore/orrore/aborto/meraviglia di uno “Stupido Incidente”, un Dio della Queerness inscritto nel desiderio privo di scopo del divenire del mondo, inquietante e magnifico, mutante e totalmente inefficiente, traboccante, erotico e vibrante.
Le frecce del desiderio non puntano a nulla.
Guardando il mondo attraverso questa lente nuova scopriremmo una sovrabbondanza di stelle, di mondi, di specie agenti-brulicanti che esperiscono: un Deus sive Vita che si rivela nella più totale assenza di significato, pura bellezza transgender priva di qualsiasi scopo e al di sopra di qualsiasi religione, ceppo, giogo mortifero e castrante.
L’umana ricerca di senso confrontata a questa “assenza” abissale di significato appare semplicemente come hybris, tracotanza.
L'apofenia, da tendenza innata del genere umano, è diventata una stringente coazione a ripetere, un’ossessione per la ricerca di schemi, matrici, metriche, simboli, uno stato completamente saturo di significato; la gnosi proposta da Morton è invece “disposizione alla possibilità che le cose siano diverse, al futuro. La significanza, piuttosto che il significato, viene dal futuro. Il significato è il passato e ce n'è in abbondanza”.
“[…] Ah, tutto è bene quello che non finisce mai. Come mi annoio superiormente! E allora che aspetto qui? La morte? Come? Io morire? Ma via, andiamo! Io morire? Ma andiamo! Sì, d’accordo, si muore, ma non essere più, non esserci più! Parole, parole, parole […]”13
La furia razionalista del cogito cartesiano, nel pensiero di Morton e di Blake, appare sforzo di semplificazione meccanicista; in quel “dunque” del “cogito, ergo sum” si radica la violenza di un’idea che guarda all’essere solo come transito temporaneo dal nulla al nulla, che pensa che gli enti possano venire all’essere dal nulla e ritornarvi14.
Se è possibile pensare il nulla da cui si proviene e a cui si torna, la necessità di un senso è fondamentale, ma la reale mancanza di quel senso richiede all’umanità anche il pensiero della dominazione. Questa è la violenza della metafisica occidentale, che giustifica il dominio su quel transito, sul divenire degli essenti, umani o non umani che siano, con buona pace di Platone, reo confesso del parricidio di Parmenide15. Non è il nostro spirito ad essere intrappolato nella materia come predicava lo gnosticismo neoplatonico del tardo antico, ma il nostro corpo fisico e imperfetto ad essere imprigionato in un universo di idee terribili, proiezione del nostro giudicante Super-Io. Questo è l’Inferno dove ci siamo gettati.
Eppure “la vita in quanto tale ha pietà perfino di Satana”, nonostante il narcisismo con cui ostinatamente marchia il flusso di coscienza dell’umanità, riflettendo verso l’Altro l’odio che prova per se stesso. Una umanità dominata-dominante, aggiogata al ceppo del proprio desiderio di perfezione.
Colpito sulla via di Damasco come un novello Paolo, Morton ci confessa la metànoia che lo ha condotto all’esperienza transpersonale della fusione del proprio e dell’altrui demone16, dove il perdono diviene l’intonarsi alla propria difettosità e a quella del mondo.
Essere una forma di vita vuol dire creare e abitare mondi che non hanno e non potranno avere una fine, un obiettivo, una freccia, una direzionalità armata. La biosfera è, quasi letteralmente, un mondo senza fini.
chiosa Morton, ripristinando il senso originario di “apocalisse”17, per donarci una “rivelazione” e non più solo un’attesa della fine. Quando togliamo il velo a copertura delle nostre fugaci esistenze rinveniamo anche tutti gli altri che con noi dimorano, che ci dimorano, e che noi stessi dimoriamo; l’Uno verso cui tendiamo è il molteplice dispiegarsi di migliaia di differenti e meravigliose forme che invece di catalogare, censire e misurare potremmo provare ad esperire: perdonati e perdonanti frammenti del caos.
Ottava Elegia - Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Torino: Einaudi, 1997.
Friedrich Hölderlin, Iperione, Milano: Adelphi, 2013.
A cui contrapponiamo l’essere-del-mondo; per quanto tale distinzione risulti eminentemente gnostica nel suo apparente dualismo, ed il discorso di Morton si presenti strutturalmente invertito rispetto alle posizioni dello gnosticismo, qui essere-nel-mondo è da intendersi come averne preso dimora, un modo di essere e di fare in relazione al mondo; essere-del-mondo va invece inteso in quanto l’esigere e allo stesso tempo il diventare possesso del mondo.
La “lenta cancellazione del futuro” di Franco “Bifo” Berardi amplificata a tutta la biosfera? Crf. Franco Berardi, Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità, Bologna: DeriveApprodi, 2013.
Cfr. Acid Horizon, Anti-Oculus. Una filosofia della fuga, Roma: Nero, 2025, per una disamina sull’argomento ed uno sprone alla fuga.
Mark Fisher ha sottolineato quanto sia fondamentale inscrivere nella categoria della diversità e della devianza anche la psicopatologia imperante della depressione: questa è una risposta sana alla negazione di una alternativa del realismo capitalista, alla disumanizzazione del reale operata dal capitale. Non si vuole negare qui che la depressione sia una condizione di dolore profondo che necessita di attenzione e supporto, ma che la medicalizzazione forzosa (soprattutto quella operata sui bambini e gli adolescenti) associata allo sdoganamento dell'"essere in terapia” e la privatizzazione della crisi psicopatologica vanno inserite nel quadro delle tecniche e delle pratiche oculari e di controllo.
Cfr. Dean Falk, Lingua Madre. Cure Materne e origini del linguaggio, Torino: Bollati Boringhieri, 2015. Che le mansioni non immediatamente legate al mondo della produzione - delle cose - ma a quello della ri-produzione - della vita - non siano economicamente e socialmente valorizzate è appannaggio delle comunità patriarcalmente organizzate che hanno sviluppato spregio della vita stessa. Tale organizzazione sociale oltre ad aver delegato in via esclusiva i compiti vitali di accudimento e cura alle donne, isolandole coattivamente entro le mura domestiche per millenni, ha negato contemporaneamente una qualsivoglia indipendenza economica, sociale e personale a quante hanno, de facto, permesso la sopravvivenza della specie umana sino a oggi.
Marginalizzando, stigmatizzando, usando, punendo e sfruttando il corpo e la psiche delle donne è stata brutalmente istruita l’ipoteca sulla vita che le generazioni future dovranno riuscire ad estinguere, se mai volessero farlo.
Come sostiene Morton, movimenti sociali come il #Meetoo e Black Lives Matter sono fondamentali per la costruzione di una visione ecologica e per loro intima essenza ecologici ante litteram: rivendicano l’urgenza di una convivenza armonica degli essenti e cura dell’Altro nella biosfera tutta.
Inteso come “qualsiasi forma di senzienza”.
“Natura” e “naturale” sono termini essenzialmente politici, entro i quali viene ricondotta con la violenza ogni tendenza inadeguata: vi sarà quindi una coppia “naturale” eterosessuale, un ruolo “naturale” di accudimento della donna, una “naturale” tendenza alla predazione sessuale del maschio con relativa vittimizzazione secondaria, un “naturale” ruolo di sudditanza delle etnie che non hanno saputo interpretare correttamente la “naturale” inclinazione umana alla razzia come lo sterminatore di vita/civiltà europeo negli ultimi duemila anni.
Il digitale nel suo complesso non è forse la promessa di una fuga totale dalla materialità?
Consigliere Hamann: > "Non capisco queste macchine... ma dipendiamo da loro. Anche se non capisco come funzionano, so che non potremmo sopravvivere senza di loro. Curioso, vero? La potenza che ci tiene in vita è la stessa che ci tiene schiavi."
Neo: > "Non direi che siamo schiavi."
Hamann: > "No? Allora perché non le spegniamo?"
Neo: > "Temo che moriremmo senza di loro."
Hamann: > "Esatto. Difficile dire chi comanda chi."
[The Matrix Reloaded, Lana e Lilly Wachowski, 2003]
Cfr. Simone Weil, La Persona e il Sacro, Milano: Adelphi, 2014.
Carmelo Bene, Amleto, 1978.
Per un’ampia disamina sull’argomento si può consultare tutta l’opera di Emanuele Severino, ed in particolare: Emanuele Severino, Essenza del Nichilismo, Milano: Adelphi, 1995, 6ª ediz.
Cfr. Platone, Sofista [236d-239a; 257b-258d].
Dal greco δαίμων, daímon: essere al limite tra umano e divino
Da greco ἀποκάλυψις, apokálypsis: togliere il velo, rivelazione, scoperta.